Seconda lezione del Laboratorio di Scrittura Creativa di Roberto Pallocca

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Il 5 dicembre si è tenuta la seconda lezione del Laboratorio di Scrittura Creativa tenuto da Roberto Pallocca. Innanzi tutto abbiamo dovuto leggere i nostri ‘compiti a casa’.

Partendo dall’incipit del libro di Philip Roth, Lamento di Portnoy, il nostro compito era di continuare il racconto cercando di ricalcare il più possibile lo stile letterario.

Riporto qui di seguito l’incipit evidenziato e a seguire il mio ‘compitino’.

Mi era così profondamente radicata nella coscienza, che penso di aver creduto per tutto il primo anno scolastico che ognuna delle mie insegnanti fosse mia madre travestita. Come suonava la campanella dell’ultima ora, mi precipitavo fuori di corsa chiedendomi se ce l’avrei fatta ad arrivare a casa prima che riuscisse a trasformarsi di nuovo.

E sembrava persino che il mondo fosse in combutta con lei per rendere più credibile, più verosimile quella strana ed inutile farsa. Così, sembrava che il semaforo diventasse rosso proprio nel momento esatto in cui mi accingevo ad attraversare, per permetterle di arrivare prima di me.

La logorroica Signora Martin, sempre all’ombra di quel ridicolo cappellino che sembrava il nido precario di una quaglia spennata, puntualmente mi fermava davanti al panettiere per almeno cinque minuti per raccontarmi di che colore fosse il rigurgito di pelo del suo gatto che, mirabilmente ed inspiegabilmente, riusciva ad assumere noiose ed inverosimili sfumature ogni giorno più disgustose.

Lei era sicuramente una complice di mia madre, perché mi bloccava lì, all’angolo del nostro isolato, separato dal portone da quegli ultimi cento metri, per darle il modo di compiere la sua trasformazione in tutta sicurezza. La mia prima preoccupazione era quindi come evitare la Signora Martin, dato che non avevo possibilità di influenzare telepaticamente il semaforo all’incrocio. 

Da qui le soluzioni praticabili erano per forza solo due: o il gatto migliorava la sua digestione o l’avrebbe peggiorata in modo definitivo.

Roberto poi ci ha fatto fare altri tre esercizi durante la lezione.

Ci ha fatto ascoltare Le Onde di Einaudi e chiesto di scrivere in dieci righe le nostre impressioni, cosa ci faceva venire in mente la musica. Lo scopo era quello di trovare ‘idee’ da cui poi tratte un racconto. Qui di seguito, la scena che mi è venuta in mente.

Due persone, in mezzo a tante altre, che si guardano e non riescono a staccare gli occhi l’uno dall’altra. Comunicano con gli sguardi e man mano cambiano le espressioni, proprio come in un dialogo serrato. Dall’iniziale imbarazzo, alla curiosità, al compiacimento. Da una richiesta muta ad una risposta negata. Dalla delusione al distacco finale.

Il secondo elemento di stimolo è stato l’arte. Ad ognuno di noi è stata distribuito un dipinto. A me è capitato Van Gogh, Terrazza di un caffè la sera. Qui di seguito, cosa mi ha ispirato.

Nel percorso dalla buia stanza della rue Noire, con metà degli abiti a coprire la metà del corpo che doveva rimanere scoperta, passava davanti a quei caffè pieni di luci, di bella gente, di bicchieri scintillanti. 

E qualche donna, ogni tanto, le rivolgeva uno sguardo severo, altre uno di disapprovazione. Le più giovani di compassione.

Gli uomini, invece, si esibivano in commenti ben più espliciti, a volte in cori se già ubriachi. Alcuni la seguivano e sarebbero stati i primi clienti della serata.

Era un breve, ma lunghissimo percorso di gogna e lei si chiudeva di più la mantella sul petto, piena di commiserazione e vergogna. La stretta si sarebbe allentata solo all’imbocco del vicolo sulla piazza. 

Al buio era tutto di nuovo più facile.

Infine, Roberto ci ha chiesto di scegliere una parte del nostro corpo e di farla parlare. Io ho scelto La Mano Destra.

In genere sono fredda, distaccata. forse per questo non ho una presa sicura e lascio cadere tutto. Non riesco a tenere stretto niente per più di qualche attimo. Ci provo pure, ma fa male. 

Solo una cosa la tengo ben stretta, con consapevolezza, fino a farmi uscire quel calletto antipatico sul dito: la penna. Quella è l’unica cosa che resta incollata a me di prepotenza ed io, ben contenta, la lascio fare.

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